Uno spazio di pensiero: non di semplice narrazione, ma di riflessione a volte anche sofferta, alla ricerca delle parole per dirsi. [cit.]
lunedì 25 novembre 2013
Plotino, Enneadi - note e commentario in P. Hadot, Traité 38
[...] allora certamente non scambierebbe Lui con nessuna di tutte le
altre cose, anche se le venisse offerto il cielo intero, poiché sa che
nulla vi è di più prezioso e migliore di Lui, così, in quel momento le p
dato di giudicare e di sapere perfettamente che "Lui" essa desiderava, e
può affermare che non vi è nulla di preferibile a Lui (nessuna menzogna
è infatti possibile: dove trovare un più autentico vero? Ciò che essa
dice, dunque: "E' Lui", lo pronuncerà anche più tardi, ora lo esprime
col silenzio e, colma di gioia, non si sbaglia, proprio in quanto colma
di gioia, non dicendolo essa a causa di un paicere che le solletichi il
corpo, ma essendo invece diventata ciò che era quando un tempo era
felice) ... Se accadesse che venissero distrutte tutte le cose intorno
ad essa, sarebbe esattamente ciò che vuole, purché soltanto fosse
insieme a Lui: così grande è la gioia cui essa è pervenuta.
sabato 9 novembre 2013
26-27-28 ottobre 2013 - dieci giorni dopo, scrivo
Pare che
l’esperienza estetica sia quell’esperienza che l’essere umano fa quando
incontra con i sensi e con il corpo tutto qualcosa in cui si ri-conosce,
qualcosa che egli riesce a condurre nuovamente ad uno spaccato del suo passato,
un pezzo di vissuto buono che affiora nuovamente.
I tre giorni
che ho trascorso in Toscana la settimana scorsa sono stati questo: una
eccezionale esperienza estetica tra emozioni, sentimenti, sensazioni e
percezioni del bello.
Una passeggiata
solitaria per il centro di Firenze in una giornata primaverile di fine ottobre,
sotto ad un cielo così blu da togliere il fiato, cullata dall’andamento
costante dell’Arno, guidata dai colori e dalle forme delle strade, dei palazzi.
Ho vagato, da sola, con il cuore piantato nel presente, colmo di gratitudine.
La stessa
passeggiata l’ho ripetuta la sera, in compagnia di Simone e Mirko: stessi
luoghi, stesso modo di passeggiare senza meta ma con uno stato d’animo
completamente diverso: in quelle due ore ho riso a crepapelle, ho sorriso,
ascoltato, parlato, raccontato, guardato. La luce non era più quella
dell’imbrunire ma quella artificiale dei lampioni sul Lungarno, dei fari
puntati sulle facciate degli innumerevoli palazzi meravigliosi sparsi qua e là.
La luce era anche quella che traspariva da dietro le tende appese alle finestre, a
celare lo scorrere delle vite.
Era talmente
tanta l’eccitazione di portare la mia vita sotto quel pezzo di cielo, a
respirare quell’aria, quell’odore così diverso da casa ma così tanto familiare,
che avrei girato e girato e girato ancora, ancora, ancora. Per rimandare il più
possibile la fine di quel momento di bellezza allo stato puro.
Il giorno dopo
è stato il tempo per la mia nonnina.
Ho preso il
treno da Firenze a T. Non accadeva da tantissimi anni. È stato un
viaggio emozionante, denso di ricordi, aspettative, paure, gioie, impazienza.
È venuta a
prendermi la zia Margherita in stazione, siamo andate a M.
La prima
cosa che ho fatto è stata comprare un bellissimo ciclamino bianco, poi sono
andata al cimitero, a piedi, con la pianta in braccio (l’ho tenuta vicino al
cuore, appoggiata al fianco sinistro, come faccio con i bambini – quasi a voler
trasmettere l’energia più buona che ho dentro). Ho camminato lentamente, mi
sono appoggiata al silenzio, ho tagliato l’aria dolce da cui mi sono sentita
abbracciare, ho assaporato ogni istante, ogni passo, ogni respiro. Quando sono
arrivata davanti al cimitero, avvolta dall’ombra dei cipressi, mi sono sentita
emozionata, come se avessi avuto la possibilità di reincontrarla,
riabbracciarla, baciarla di nuovo, ancora. La mia nonna. Non mi sono detta che non era
possibile, mi sono lasciata trasportare da tutte le sensazioni che mi
attraversavano in ogni direzione: cuore – testa, testa – gambe, gambe – cuore,
mani – cuore, cuore – occhi, occhi – mani. E mi è sembrato di ascoltare la sua
voce, di sentire la sua mano sulla pelle del mio viso a darmi una carezza; la
sentivo dietro di me, un alito di amore dietro alla mia schiena. E lacrime
calde che scendevano ininterrottamente dai miei occhi. Le ho lasciate correre,
per sentirmi più viva, più io. Per liberarmi anche. Forse.
Senza pudore.
Mi ripetevo: se piangi dentro e non fuori contemporaneamente annegherai la tua
forza (M. White, La narrazione come terapia, pg. 123). Sentivo felicità.
Piangevo ma
avvertivo una felicità sconfinata. Piangevo e avvertivo una felicità
sconfinata.
Sentivo che era
felice di avermi lì, vicino a lei. Quel pezzo di famiglia che tanto le
somiglia, forse, che più le somiglia. Questo sono io. Questo è il legame
carnale, viscerale, karmico con lei. Una similitudine nei tratti, nel
carattere, nello sguardo. Ho fatto fatica ad accettarne gli errori commessi con
mia madre quando lei era bambina (e poi più adulta), ma curarla nei suoi ultimi
mesi di vita mi ha insegnato ad amare e apprezzare tutto di un essere umano –
che è imperfezione e meraviglia.
Sono stata
nella cappella un’ora circa. Non riuscivo ad andare via. Volevo restare. Mi
sentivo trattenuta lì, per il petto. Come facevo per muovermi verso l’uscita mi
mancava il respiro. Allora tornavo ai piedi del ciclamino e mi lasciavo toccare
dal ricordo, dalle lacrime, dalla gratitudine, dalla gioia di vivere e dal
coraggio di morire che ha avuto. Il suo insegnamento più grande, l’ultimo.
Sono andata via
solo quando avevo sentito di averla accarezzata e baciata e abbracciata
sufficientemente – fino alla prossima volta. Rendendomi conto che nel cuore e
nel corpo saremo sempre l’una nell’altra.
Tornerò.
Mi è
servito andare, stare, ritornare per confermare la presenza di un riferimento,
un rifugio. Quella terra che ha dato i natali ad un pezzo del mio DNA è il nido
al quale posso recarmi quando sento il desiderio o il bisogno di confortarmi. Ho
camminato, ne sentivo un gran bisogno.
In quella terra sento la vita di una
parte delle mie radici.
Poi ho fatto
sosta “al mercato”, la piazza – ritrovo dove ho trascorso pomeriggi e sere
della mia adolescenza, dove sono nate alcune delle più belle amicizie che
ancora mi legano a persone splendide. Tantissime foglie gialle ricoprivano il
terreno e la ghiaia: un tappeto colorato che mi parlava di malinconia, di
passato, di ricordi, di un pezzo di vita che è trascorsa e continua ad esserci nei mattoncini che ha sedimentato nella mia identità, nella mia personalità, nel
mio modo di esprimermi e manifestarmi ora.
La sera di
nuovo il viaggio in treno verso Firenze, il rientro a casa accolta dalla gioia
dei bambini: il loro entusiasmo, la loro genuinità ha alleviato la mia
stanchezza. Loro non lo sanno – forse – del regalo straordinario che mi hanno
fatto; uno scambio di sorrisi, fiducia, amore, parole e conforto, denso, fitto,
fluido. Dolce.
Quando sono
salita sul treno che mi avrebbe riportata a casa, a Genova, ho sentito di aver
fatto un prezioso dono alla mia vita. Lasciare casa da sola, orientarmi,
lasciarmi andare e trasportare senza cercare l’appoggio, il consenso, l’approvazione
di nessuno mi ha fatto sentire autonoma, perfettamente in grado. La prossima
volta mi piacerebbe condividere il pacchetto delle mie emozioni con lui. Sarebbe
il passo in avanti, oltre lo schema che di solito uso nel vivere e gestire le
mie emozioni: costruisco intorno a me una cinta muraria e mi rannicchio lì
dietro, mi gongolo nella tristezza, nella rabbia, nel senso di vuoto e
abbandono. Poi rinasco. Sempre, rigorosamente, da sola. Ma voglio farcelo
entrare in quello spazio mio, intimo, voglio aprirgli un varco in quella cinta
e mostrargli anche quelle stanze senza luce; che mi appartengono tanto quanto
quelle piene di vita e sole.
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