martedì 29 aprile 2014

mercoledì 23 aprile 2014

Raccontar-si: un'esperienza da fare





Scrivere l’autobiografia è – per me – prendere la grande scatola della propria vita è iniziare a tirare fuori, un pezzetto alla volta, la propria storia. Da un ricordo ne emergono altri in ordine cronologico lineare o sparso, a volte circolare (perché pezzi di vita di oggi ritornano indietro e in avanti in uno stesso movimento); a volte i pezzi si richiamano l’un l’altro attraverso un codice sensoriale che va dall’olfattivo al tattile al visivo; molto spesso sono le emozioni di un evento a far venire fuori altri momenti in cui si è vissuto quello stato emotivo, quella sensazione che ancora corre sotto la pelle, nelle vene. 
È lenta l’azione dello scrivere di sé. 
È lento lo scorrere delle immagini; a volte mi occorrono minuti prima di poter procedere nella narrazione, minuti in cui lascio che le acque appena mosse e violentate ritornino calme, regolari, gestibili.

 

Sto imparando a mettere a fuoco, ad avere chiarezza, anche laddove – per comodità, per sopravvivenza – avevo sfumato contorni e colori. Paradossalmente questo mi aiuta a comprendere meglio chi sono: il senso di sconcerto e confusione aprono alla perdita di tutte quelle certezze su cui avevo costruito un’immagine falsata di me, ma, allo stesso tempo, mettendo luce su tutto quello che avevo adombrato e nascosto, ho una visione di me più completa, a figura intera. Potrei dire che sto sostituendo il complicato con il complesso. E questo processo, questo mettere a fuoco, questo portare alla luce è un atto che potrà essere ripetuto infinite volte con infiniti risultati ogni volta diversi.
È sempre un racconto parziale, guardato e raccontato con le lenti del qui e ora che ci caratterizzano, dunque ogni volta la narrazione cambia, si trasforma, assume sfumature differenti, muta al mutare dell’occhio che le guarda e della voce che le racconta.